“Luci d’oriente”, domenica 11 a Romena una giornata di testimonianze speciali

Come l’alba di ogni mattina, anche la speranza può arrivare dall’Oriente. Domenica 11 giugno, a Romena, incontreremo testimoni diversi, tenuti insieme però da un filo conduttore: ciascuno di loro ha vissuto o vive nell’est del mondo e ha trovato in quei luoghi, dall’India all’Indonesia sino alla Thailandia stimoli speciali in grado di comunicare a ciascuno di noi una forza e una energia di vita speciali oltre a consegnarci uno stile di vita diverso, capace di offrire preziose ispirazioni.
Nel corso della giornata, intitolata “Luci d’oriente”, saranno con noi al mattino due grandi amici di Romena, Folco Terzani e Geia Laconi e nel pomeriggio Donata Dolci, ‘Didi’, fondatrice in Thailandia di un’esperienza unica, “Baan Unrak”, “La casa della gioia”.
E la giornata sarà accompagnata e colorata dalla presenza di Zia Caterina, la famosa tassista “MIlano 25”: anche lei ha un’esperienza di oriente, vissuta proprio a Baan Unrak.

Ma andiamo per ordine. Cominceremo al mattino, ore 11.15, incontrando Folco e Geia.
Folco ha un cammino di vita impregnato di oriente: ha frequentato la scuola primaria in Cina, ha vissuto in Giappone, a Hong Kong, in Thailandia seguendo gli spostamenti del padre, il grande giornalista Tiziano Terzani, e poi in età matura ha vissuto lunghi periodi in India; addirittura un anno della sua vita lo ha passato come volontario a Calcutta presso Madre Teresa. All’India ha dedicato uno dei suoi libri “A piedi nudi sulla terra”.
Geia, sua moglie, ha l’est nel sangue: suo padre era indonesiano. E proprio il bisogno di risalire alle sue radici l’ha spinta, di recente scrivere un bellissimo libro, “Figlia dell’uomo tigre”, in cui racconta il suo viaggio verso le origini. E a Romena porterà il frutto di questo suo cammino di ricerca.

Il pranzo, che potrà essere condiviso anche a Romena, farà da spartiacque con l’incontro pomeridiano, in programma alle 15 e che avrà per protagonista Donata Dolci, “Didi”.
Donata Dolci ha fondato nel 1991 Baan Unrak, “La casa della gioia”, per accogliere bambini orfani o abbandonati e ragazze madri profughi dalla Birmania, in fuga dalla repressione del regime militare. La Casa della Gioia ospita oggi oltre 100 bambini e alcune decine di ragazze madri con i propri figli. Qui crescono in un clima di ritrovata fiducia, imparando
che la vita non è solo violenza, crudeltà, sfruttamento, sofferenza, come purtroppo hanno imparato dalle esperienze che hanno alle spalle, ma che può essere invece anche amore, serenità, attenzione e cura reciproca.
“Madre” delle migliaia di bambini che in questi trent’anni sono passati da “Baan Unrak” Didi viene molto raramente in Italia. L’incontro di Romena è, quindi, a maggior ragione, speciale.
Con Didi arriveranno anche alcuni dei bambini che stanno vivendo nella “Casa della gioia”, i volontari fiorentini di Baan Unrak, che seguono e sostengono a distanza questo progetto, e un’amica speciale: zia Caterina. La tassista di “Milano 25” è stata più volte e anche per lunghi periodi a Baan Unrak e in questo caso sarà testimone diretto del valore di questa realtà e del segnaledi speranza che da quel luogo, nascosto nella giungla, può arrivare al mondo intero.

Durante la giornata verrà allestito un mercatino con i prodotti artigianali realizzati dalle mamme nel laboratorio di tessitura e sartoria di Baan Unrak.

Pubblicità

“Sperare insieme”: l’8- 9 luglio in arrivo tante emozionanti storie di vita


Si può riconquistare un po’ di speranza e di fiducia in questo momento così difficile della storia? A Romena gli ospiti del convegno “Sperare insieme”, in programma l’8 e 9 luglio (le iscrizioni sono aperte) non solo ci dimostreranno che è possibile, ma che è proprio quella la strada maestra per ridare senso alla propria vita e farla uscire dalle strettoie dell’individualismo e dell’impotenza.
E’ il caso di 𝗟𝗢𝗥𝗘𝗡𝗔 𝗙𝗢𝗥𝗡𝗔𝗦𝗜𝗥 e 𝗚𝗜𝗔𝗡𝗔𝗡𝗗𝗥𝗘𝗔 𝗙𝗥𝗔𝗡𝗖𝗛𝗜 che con la loro associazione Linea d’Ombra assistono a Trieste i migranti della rotta balcanica offrendo loro il primo sorso di umanità.
Lorena, in particolare, si prende cura dei loro piedi, spesso in condizioni drammatiche come gesto d’amore e segno di accoglienza.
Ma è anche il caso di 𝗱𝗼𝗻 𝗔𝗡𝗧𝗢𝗡𝗜𝗢 𝗟𝗢𝗙𝗙𝗥𝗘𝗗𝗢, protagonista del grande cammino di rinascita intrapreso dal rione Sanità, uno dei quartieri più difficili di Napoli, all’insegna dell’arte e della cultura: don Antonio sarà accompagnato da alcuni giovani del quartiere che ci racconteranno le loro storie di emancipazione e riscatto.
La speranza è però figlia anche di una capacità di rigenerazione interiore e da un nuovo sguardo verso la vita, per questo sarà con noi 𝗗𝗔𝗡𝗜𝗘𝗟 𝗟𝗨𝗠𝗘𝗥𝗔, esperto di scienze del benessere e della qualità della vita, riferimento internazionale nella pratica della meditazione: i suoi seminari e i suoi incontri sono sempre seguitissimi. Oltre a essere protagonista di un incontro in auditorium, Daniel guiderà una meditazione al tramonto nei prati di Romena.
All’appuntamento di luglio parteciperà anche 𝗔𝗡𝗗𝗥𝗘𝗔 𝗖𝗔𝗦𝗖𝗛𝗘𝗧𝗧𝗢, “l’ambasciatore del sorriso”: un tumore al cervello a 15 anni gli ha reso labile la memoria a breve termine ed efficace solo quella basata sulle emozioni, e così lui si è messo in viaggio visitando e aiutando i bambini negli orfanotrofi e nelle favelas di tutto il mondo e negli ospedali delle zone di guerra, dall’Iraq all’Ucraina.
E ancora attendiamo l’arrivo dalla Francia di un personaggio molto singolare: 𝗠𝗔𝗥𝗖𝗘𝗟 𝗦𝗜𝗠𝗢𝗡𝗘𝗧. Da trent’anni Michel fa lo spazzino, lo fa per scelta, perché la vita può essere bellissima anche guardandola dal basso, può essere poetica anche in dettagli che non osserviamo: non a caso sul suo carretto ogni mattina sistema una rosa. Questo sua capacità di cogliere la bellezza in ogni dettaglio anche nella spazzatura,, Marcel l’ha raccontata in un libro: “Lo spazzino e la rosa”.
Infine, tornerà a Romena per il convegno di luglio 𝗗𝗘𝗥𝗜𝗢 𝗢𝗟𝗜𝗩𝗘𝗥𝗢, il Vescovo di Pinerolo che ci ha sempre appassionato nei suoi interventi, per la sua capacità di parlarci dei valori della vita e della fede attraverso l’arte.
I temi e gli incontri del convegno saranno introdotti dalla musica grazie alla presenza di LETIZIA FUOCHI, cantautrice fiorentina, con un vastissimo repertorio che abbraccia tutto il mondo della musica d’autore italiana, e non solo.

LE ISCRIZIONI SONO APERTE. PER INFO E ISCRIZIONI:

  • telefono 347 99 15 549 lunedì, martedì orario 14-16 e giovedì orario 16,00-20.00
  • mail convegni@romena.

Romena e don Lorenzo Milani

Il prossimo convegno di Romena, in programma sabato 6 e domenica 7 maggio, dedicherà alcuni dei suoi momenti centrali al pensiero, alla vita, all’opera di don Lorenzo Milani, a cento anni dalla sua nascita.
In particolare don Milani sarà presente attraverso lo spettacolo “Cammelli a Barbiana” del bravissimo attore pugliese Luigi D’Elia, e grazie alle testimonianza di alcuni giornalisti e scrittori (come Sandra Gesualdi e Mario Lancisi) la cui vita è stata fortemente influenzata dall’incontro, benchè indiretto, con il priore di Barbiana.
In vista di questo appuntamento ho fatto un mio personale, anzi familiare pellegrinaggio alla scuola di Barbiana, che ha ispirato anche l’articolo che apre il nuovo numero della rivista di Romena “Un cuore acceso”. Lo condivido volentieri con voi.

Scuola_di_barbiana_-_don_lorenzo_milani_e_alunni_in_aula

Questo giornalino comincia in una stanza piena di foto.
Sono foto in bianco e nero, ritraggono ragazzi che studiano, che fanno sport all’aria
aperta, che si esercitano in vari mestieri. Sono foto di una scuola povera, ma di una ricchezza inestimabile.

Scuola di Barbiana, nel Mugello. Non so se il cuore è acceso, ma di sicuro palpita forte,
perché qui è tutto vero, tutto intatto, senza fronzoli, senza aggiunte posticce.
Ho appena visitato la piccola aula dove gli allievi di don Milani trascorrevano giornate
a studiare ed esplorare, e dove ogni oggetto, ogni libro, porta addosso i segni di quella
voglia di apprendere; sono poi sceso nel laboratorio, con gli arnesi e gli utensili costruiti
dai ragazzi perché ciascuno potesse imparare una professione o almeno sperimentarla.
Resta l’ultima stanza, quella della mostra fotografica.

Mi soffermo sulle espressioni dei ragazzi, li osservo, uno ad uno, e c’è una nota,
la stessa, in tutte le foto: hanno uno sguardo vivo, fiero, lo sguardo di chi vuol comunicare
la gioia di esser parte di quella storia. All’epoca i contadini erano figli di un dio
minore. La scuola era un lusso evitabile, il bisogno forzava tante famiglie a spingere i
ragazzi nei campi, più che sui libri. I padroni utilizzavano quella ignoranza per mantenere
il divario culturale e sociale, a garanzia dei loro privilegi.

In altri contesti scolastici quei ragazzi, fotografati, avrebbero avuto un’aria smarrita, il
capo chino: l’aula era il luogo che rispecchiava la loro presunta inferiorità.
Qui no. Gli occhi di tutti quei ragazzi comunicano lo stupore di chi sente che quel luogo
non è solo una scuola: è uno scrigno di possibilità.
Grazie all’incontro con quel maestro speciale hanno scoperto che la partitura della
loro vita è tutt’altro che scritta, anzi. In quelle foto i ragazzi fanno capire chiaramente
che ciò che hanno imparato non vale solo per superare un esame: grazie allo studio
hanno scoperto che la vita ha margini enormi e che, in quegli spazi sconfinati, c’è spazio
anche per i loro sogni.

Come sarebbero i nostri occhi, oggi, se potessimo vederli in quella stanza? I nostri sguardi,
alla riprova delle foto, risulterebbero meravigliati, o svuotati? Infuocati di passione, o
abulici? Saremmo veri, o in posa?
C’è un tasto semplice, “on-off”, che stabilisce quando il nostro cuore è acceso e quando è
spento.
Il cuore è acceso quando sentiamo di riuscire a trainare la nostra vita, è spento quando avvertiamo invece che siamo trainati; è acceso quando percepiamo la presenza di un orizzonte, anche quando non lo vediamo, è spento quando ci muoviamo, con fatica, solo per reagire alle circostanze, agli impegni, alle condizioni esterne.
La differenza sta in una facoltà che tutti noi abbiamo, ma che non sempre rendiamo disponibile: è lo stupore.
Lo stupore è quella molla che, invece che farci affondare nelle secche del presente, ci spinge sempre un po’ più in là; è un movimento che possiamo attivare tutti, se manteniamo un patto di autenticità con noi stessi, ricercando sempre ciò che la vita ci chiede, più che ciò che ci impongono le condizioni del momento.

In questo momento storico tutto depone per il pulsante “off”. Oltre agli impedimenti soliti, le attività quotidiane vissute con frenesia, il tempo spremuto e raramente goduto, ci sono anche le condizioni esterne: crisi sociali, economiche, ambientali, guerre, pandemie. Sembra tutto enormemente più grande delle nostre misere forze, tutto in grado di giustificare il nostro atteggiamento di rinuncia.
Eppure è proprio ora che la storia, sia personale che collettiva, ci chiede di fare il movimento inverso, quello che conduce al tasto “on”.

In un articolo di questo giornalino Simona Atzori ci racconta di un suo momento difficile, durante l’adolescenza: “Ero dentro a un tunnel – ricorda – ma tenevo gli occhi sempre aperti: sapevo che un giorno il tunnel sarebbe finito e solo se avessi tenuto gli occhi aperti avrei potuto vedere la luce”.
Ecco come si tiene acceso il cuore. Con occhi sempre aperti. Aperti e vogliosi di sentire e di sapere.

La partita tra ciò che è e ciò che potrà essere, tra ciò che vediamo e ciò che per ora si nasconde, è sempre aperta. C’è una quota perenne di inatteso, di imprevedibile, di inimmaginabile, a disposizione di tutti.
Non dimenticate mai l’immensità della vita: non so se Lorenzo Milani lo disse mai ai suoi ragazzi. Ma anche in questo consisteva la sua lezione.

Massimo Orlandi

Simona Atzori: “Cerco la luce, come i girasoli”

Cercare la luce, sempre. E’ così che Simona Atzori ha cercato di affrontare le intemperie della vita.
E’ così che, pur essendo nata senza le braccia, è riuscita a realizzare un sogno che sembrava impossibile: diventare una ballerina professionista e una pittrice.
Simona è una grande amica di Romena. Più volte la abbiamo incontrata e molto presto (il 20 e 21 maggio) tornerà per un imperdibile corso. “La forza della fragilità”.
Nell’ultimo numero della nostra rivista, “Un cuore acceso” ho raccolto alcuni passaggi degli incontri che ho avuto con lei: sono, credo, preziosi tasselli di vita e di consapevolezza. Da condividere…

“Come un girasole”

Mettersi in gioco

Nella vita ciascuno di noi ha limiti che a volte si possono superare provandoci una, cento, magari anche mille volte, e limiti che affrontiamo senza esito finché capiamo che dobbiamo accettarci o che magari quella cosa la possiamo fare in un altro modo.
In ogni caso è importante mettersi in gioco, sperimentarsi. Scopriremo così che i limiti più concreti, più reali, sono quelli che ci vengono imposti dagli altri.
Non dobbiamo perciò accettare che diventino anche i nostri, perché solo allora diventano limiti enormi, che facciamo molta più fatica a superare.

Ho incontrato tante persone che mi hanno detto che non avrei potuto fare tante cose.
Semplicemente non sarei nemmeno nata, se i miei genitori avessero ascoltato una voce dentro di loro o quella di altre persone intorno. Quel limite, se loro fossero stati ad ascoltare, sarebbe diventato reale, gigantesco. Non l’avremmo superato e non avrei fatto quello che ho fatto.
Certo è una cosa semplice da dire e certamente più complicata da fare.
Però c’è un altro modo di guardare a questi limiti, ovvero pensare che in realtà quei limiti sono solo negli occhi di chi ci guarda.

Tenere gli occhi aperti anche quando fa buio

C’è stato un periodo, nella mia adolescenza, in cui ho vissuto come una forma di bullismo strisciante. Non era esercitato con fatti o con parole ma all’opposto, attraverso l’indifferenza.Indifferenza è quando per gli altri non esisti.

In quella fase mi rendevo così delicata qualsiasi sforzo avessi potuto fare per mostrare chi ero e cosa sapevo fare, non veniva visto. Mi sentivo in una specie di tunnel completamente buio.
Allo stesso tempo però ricordo anche che, nonostante queste difficoltà, io continuavo a dire a me stessa: “Non chiudere gli occhi, perché quando arriverà la fine del tunnel, e arriverà, ci sarà la luce. Se tu hai gli occhi chiusi, non la vedrai e penserai di essere ancora dentro quel tunnel. Invece tieni gli occhi aperti perché la luce arriverà, e tu la dovrai vedere subito. E forse, con un po’ di luce, qualcuno di quelli che oggi non ti vede, si accorgerà di te, magari mentre balli, dipingi, mentre fai ciò che ti fa sentire te stessa”.
E così è stato.

Non smettere mai di sognare

Penso che tutto quello che facciamo, anche quando non ce ne rendiamo conto, è cominciato da un sogno. Del resto anche noi siamo stati i sogni dei nostri genitori.
A me piace sognare perché credo che sia una delle poche cose che possiamo fare tutti.
A qualsiasi età, sia da ragazzi che più tardi, non si può mai smettere di sognare. Se non avessi sognato non avrei fatto nulla di quello che ho fatto.

Quand’ero bambina dicevo che volevo fare la ballerina e la pittrice e vi assicuro che la gente mi guardava come avessi detto: vengo da Marte. Sicuramente era l’ultima cosa che pensavano potesse fare una bambina senza braccia.
Però capite, adesso che esiste tutto questo, è facile dire che è possibile, ma i sogni non ci sono quando tu sai che è possibile. I sogni arrivano prima, quando tu hai credi fortemente in qualcosa che magari sembra in quel momento irrealizzabile.

Perciò dobbiamo metterci in cammino con i nostri sogni, poco importa se non arriveremo. Anche se sogniamo di fare l’astronauta. Magari non ci arriveremo mai, però chissà quante cose scopriremo, percorrendo quella strada.

Dare voce alla propria creatività

L’arte per me è proprio é come il cibo, come l’acqua, è fonte di vita. Io quando dipingo, quando danzo, quando scrivo, ho un rapporto molto stretto con me stessa, prima di tutto, è il momento in cui io mi metto a nudo, è il momento in cui non mi faccio sconti, è il momento in cui davvero io chiedo a Simona di essere sè stessa, senza paura.

Io a volte dico questo in maniera un po’ poetica che io non ho scelto la danza e la pittura, ma sono state loro a scegliere me perché mi hanno donato le opportunità e gli strumenti per connettermi con me stesse e per dialogare con gli altri allo stesso livello.

Quando sono sul palcoscenico mi sento viva, vera, mi sento tutto. Sento la gioia, sento il dolore, sento la tristezza, sento la paura. Sento qualsiasi emozione che uno possa provare. Riesco a provarla mentre danzo e sento che posso raccontare qualsiasi cosa, perché è veicolata dal mio corpo. E lo spettatore può comprendere e provare esattamente le stesse emozioni che io sto provando. C’è un linguaggio che va al di là delle parole che utilizziamo, un linguaggio che è per tutti, per qualsiasi persona. Questa è la magia dell’arte.

Aver fiducia nella vita

Sicuramente una prima spinta verso la fiducia me l’ha data la mia famiglia: la mia mamma era una donna che cercava di trasformare ogni cosa in un’avventura, anche le esperienze meno piacevoli,
Ricordo per esempio quando andavamo vicino Bologna per verificare se potessi portare le protesi, cercavano sempre di unire a quella visita qualcosa di allettante qualche gradevole fuori programma. Insomma quella visita diventava una viaggio di famiglia che conteneva comunque qualcosa di buono.
Sicuramente questo modo di essere mi ha un po’ contagiata al punto che io, lo dico sempre, mi sento come un girasole. Perché il girasole? Perché cerca sempre la luce.

A questo proposito vi racconto una storia. Un giorno mi affaccio dal mio balcone e indico a mia mamma l’erbaccia che spuntava vicino al cancello.
Andava strappata, ma la mamma ci fermò: “Non lo fate, è un girasole”. La guardai come se avesse detto una cosa stranissima, però dopo qualche tempo in effetti spuntò davvero un girasole, tra le mattonelle del cortile, in un posto dove i fiori non nascono. Era spuntato e ora cercava il sole, perché il girasole va sempre verso il sole. Così io cominciai a sentirmi come quel girasole. Sono nata un po’ così, nella difficoltà, però guardo sempre il sole, cerco sempre il sorriso e la vita. Che va sempre oltre.

Non dimenticare che tu sei tutto cio’ che hai.

Non dimenticare che tu vali piu’ di qualsiasi altra cosa a cui davi valore.

Non dimenticare che se perdi tutto rimani tu e che tu sei davvero il tutto.

Non dimenticare che puoi scoprire cio’ che nemmeno pensavi esistesse

e che non lo trovi fuori, ma solo dentro di te.

Simona Atzori.

Se vuoi ricevere la nostra rivista, iscriviti qui.

“Quella sera del 13 marzo”

Rivivamo insieme una sera indimenticabile, quella del 13 marzo di 10 anni fa, la sera in cui venne eletto Papa Francesco, con le meravigliose parole di Angelo Casati, sacerdote e poeta.
Domenica prossima, 12 marzo, a Romena, in anticipo di un giorno, festeggeremo quell’evento. L’incontro (ore 15 in auditorium) dal titolo “Semplicemente grazie” avrà per protagonisti tre testimoni che lo conoscono molto bene: un amico argentino, Marcelo Figueroa, una vaticanista, Annachiara Valle, e il Prefetto del Dicastero della comunicazione della Santa Sede, Paolo Ruffini.
Insieme racconteremo il vento nuovo che ha portato, in questi 10 anni il papa venuto ‘dalla fine del mondo’.

Apparve così, come lo sentiamo oggi, fin dalla prima sera.
Erano gesti semplici, i suoi, ma a noi sembrò da subito che, dietro quei gesti, stesse un pensiero, una immagine di chiesa che ci faceva riandare agli orizzonti del Concilio.

Si tolse fin dalla prima sera l’imponenza, tutto ciò che alla figura del Papa legava l’immagine di una certa sovranità, nei vestiti, nelle parole, nei gesti.
Diventò subito il Papa dell’immediatezza.

Lo guardammo, era come abitato da una passione di vicinanza, quella del pastore cha fa vita con il gregge: quella passione era nei suoi occhi e sulla sua pelle…
Disse: “Buona sera”, era una chiesa che entrava negli spazi della giornata, nella casa, nelle ore delle case. L’ora della sera.
Quasi ad allontanare la visione di una chiesa che fa le sue cose e non le stanno a cuore le sere delle donne e degli uomini, le sere del mondo.

Il Papa del concilio si chiamava fratello. Il Papa, che veniva dalla fine del mondo, il suo essere fratello lo disse con un gesto che non finisce di stupire, dove la fraternità ha la precedenza sul ruolo: chiese una benedizione, una preghiera, chiese di essere benedetto dal suo popolo, prima di benedire.
Un popolo che benedice il suo pastore.
L’impressione fu enorme, era profumo di vangelo.

In questa ricorrenza vorrei salutarlo e ringraziarlo così:
Caro Papa Francesco, io sono un vecchio prete, ma, pur da vecchio, non avevo mai smesso in questi anni di fare sogni, e tra i sogni, che ancora accendevano di passione gli occhi e il cuore, quello – e prendo a prestito la parole da don Primo Mazzolari – di una chiesa che “fa casa con gli uomini”.
Tu hai dato corpo al sogno.
Hai legato la tua immagine non a un Palazzo se pur pontificio, ma a una casa. Ogni volta che ti penso a Casa Santa Marta, penso che tu fai casa, fai casa con noi, fedele ancora una volta a Gesù che ha messo la sua tenda in mezzo a noi.
Vorrei ringraziarti: con te la chiesa “fa casa”. Io porto emozione negli occhi.

Angelo Casati

Il testo è tratto dal libro “Semplicemente grazie” (Edizioni Romena)